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Il Dojo dell’inferno (P.Gouttard a cura di Marco Marini)

Morihei-Ueshiba-3-230x300Il corso di mercoledì a mezzogiorno è un corso che è stato nella nostra percezione di Aikido per molti anni.

In effetti, questo è un corso basato sull’accettazione di tutti, sul lasciare libertà all’altro di eseguire sul tappeto tutto quello che gli passa nella testa e nel corpo. C’è una sola regola: “noi non ci lamentiamo”.

Quest’idea ci venne in seguito a due affermazioni che avevamo sentito.

La prima è: “in passato il dojo di O Sensei era chiamato il dojo dell’inferno“.

Per noi d’espressione cattolica, aveva connotazioni di pena e di sofferenza estrema.

E soprattutto nessuno era ritornato da quell’inferno che la Bibbia ci descrive come un luogo dove il fuoco arde continuamente per tutti quelli che non avevano avuto un atteggiamento corretto verso gli altri.

Il dojo dell’inferno, si doveva soffrire terribilmente!

E quando siamo entrati la prima volta nel dojo avevamo in mente solo questo: che il dojo dell’inferno sarebbe stato terribile. Riusciremo ad uscirne ancora vivi?

Poi la classe sotto la direzione di Kisshomaru Ueshiba (il secondo Doshu) andò molto bene, questo inferno non era poi così terribile.

Ma una volta finito, parlando con gli studenti mi dissero che altri corsi erano più difficili di questo.

Così abbiamo dovuto fare tutti i corsi al dojo Honbu per capire se “l’inferno” esistesse.

In realtà le classi erano più o meno uguali.

L’inferno, sono stati i partner con cui ci siamo allenati.

Ricordiamo il primo uchi deshi con cui abbiamo praticato. Ne avevamo sentito parlare dai francesi che, almeno loro, erano tornati “vivi” da quel posto. E’ stata un’esperienza ricca di emozione, perché abbiamo dovuto imparare rapidamente come proteggere noi stessi, sentendo pienamente il desiderio del partner di ferirci per dimostrare la sua superiorità. Maeravamo stati ben allenati e la prova si concluse senza danni. Abbiamo poi lavorato molto con quest uomo che a mano mano durante i nostri incontri si ammorbidì,anche se dovevamo essere sempre vigili, ma abbiamo imparato molto su ciò che s’intende per “impegno”.

La seconda affermazione ci è venuto da un praticante francese che viveva a Tokyo da una decina di anni e voleva tornare a casa. Ci disse: “non vorrei altro che una ventina di studenti e poter praticare come qui a Tokyo“.

Questo mi aveva intrigato perché veramente la formazione all’Hombu dojo era molto semplice.

L’insegnante mostra una tecnica quattro o cinque volte e poi gli studenti lavorano senza sosta, e soprattutto senza parlare. Almeno tra giapponesi e stranieri.

All’epoca abbiamo trovato questa riflessione giusta. L’unico problema era che, per avere una ventina di praticanti che lavorano come all’Hombu dojo, devi avere trenta anni di anzianità e almeno aver avuto minimo un centinaio di studenti, perché poi ne restino venti che lavorino secondo i desideri intimi del maestro.

Ma questi due pensieri ci sono rimasti in memoria e abbiamo deciso di iniziare questo corso per cercare di replicare a st Etienne quello che avevamo percepito a Tokyo.

St Etienne, mercoledì a mezzogiorno.

Questo corso è molto importante per noi perché è l’unico modo che abbiamo trovato per rimuovere la parte che richiede la perfezione di un corso tecnico, per ricercare il silenzio difficile da instaurare in un corso normale.

Qui è proibito correggere verbalmente. Non ci sono limiti, tutto può essere progettato e intrapreso alla sola condizione che il partner non si ferisca, sia mentalmente che fisicamente.

Noi, personalmente, lavoriamo tanto quanto gli studenti: siamo sia uke che tori, poiché la nostra concezione di insegnamento non prevede solo di dimostrare al centro del tappeto, ma anche di far passare col corpo quello che abbiamo spiegato a parole.

Abbiamo raggiunto una fase di allenamento dove ciascuno si esprime per un’ora, su una tecnica dimostrata nel mezzo, ma con la possibilità di farla evolvere ciascuno a suo modo.

Prendiamo un esempio: su Shomenuchi come un attacco e Kotegaeshi come risposta.

Ognuno ha la possibilità di rimanere su quel principio, farlo evolvere con contro tecniche, o ingaggiare l’altro sul tatami per verificare il corpo a corpo, o usare un po’ di karate se l’occasione si presenta.

La difficoltà maggiore è stata quella di non far uscire troppo rapidamente gli studenti dalla pratica abituale.

Questo ci ha permesso, praticando con loro come se fossimo degli studenti, di far sentire ai nostri partner quello che avevamo detto con le parole negli altri corsi. E’ anche un buon modo per stabilire una gerarchia e far capire agli studenti il valore di un grado.

Perché un grado non è solo un’espressione tecnica, ma anche l’impegno, lo sforzo e soprattutto il desiderio di condividere con altri le proprie conoscenze.

I vantaggi di questo tipo di corso.

Questo corso è una vera fonte di giovinezza, perché ci fa uscire dai sentieri battuti e soprattutto ci toglie un po’ della frustrazione che possiamo sentire quando in un corso cosiddetto “normale”, noi dobbiamo essere determinati … ma solo un po’.

Questo corso ci permette di cambiare in parte le regole sacrosante di buona condotta.

Coloro che vengono a questo corso, all’inizio sono un po’sorpresi, ma superati i primi momenti di incertezza e incomprensione, tutti tornano e chiedono ancora di più.

Un altro vantaggio di questo corso è che s’insegna agli studenti a lavorare senza aspettare di essere corretti dal docente.

Si accede al tappeto per la pratica, senza reticenze, pur nel rispetto dello stato di stanchezza e del livello di ciascuno.

E senza una parola. Questo è il bello.

Philippe Gouttard

Traduzione a cura di Marco Marini

Articolo originale:

Le cours du mercredisu http://www.aikido-gouttard.com/

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