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Il Compagno d’allenamento

Il primo fraintendimento è nei termini. In Aikido il training partner viene chiamato Uke, parola giapponese tradotta in tanti modi e con le più svariate interpretazioni, lasciata per il suo valore tradizionale, ma causa di interpretazione talora bizzarre. Spesso, infatti, il termine uke viene tradotto e inteso come colui che ‘riceve’ (soggetto passivo), o anche come ‘colui che sa cadere’, ma anche come ‘colui che non dà fastidio e subisce’.IMG_7109

Ma nessuna di queste interpretazioni tiene conto del fatto che uke è soggetto attivo nell’allenamento dell’altro.

Saper cadere e cadere non fa parte del ruolo di uke. Cadere è una conseguenza non scontata e soprattutto attiene alla salvaguardia personale del praticante: non è, quindi, prerogativa di questo ruolo.

Andiamo a vedere, invece, quale sono (o dovrebbero essere, almeno secondo me) le caratteristiche di un buon compagno di allenamento nella pratica ‘normale’ in una palestra.

A mio avviso, per ottemperare alla sua funzione di allenatore l’uke dovrebbe seguire alcuni principi generali:

 

  • cercare di comprendere le direttive e gli obiettivi che l’insegnante intende in quel momento raggiungere;
  • essere sempre soggetto attivo e “vivo”;
  • saper motivare, stimolare;
  • curare la salvaguardia fisica come prerequisito di ogni sua azione;
  • variare e adattare il suo lavoro (forza, velocità, reattività) al partner e all’obiettivo da raggiungere.

 

Di seguito un po’ di pensieri sparsi…

Saper essere attivi…

significa concedere aperture, ma richiuderle se non vengono colte;

significa non ostacolare, ma nemmeno crollare a peso morto sulla tecnica;

significa reagire se qualcosa è scorretto o si vede una perdita d’equilibrio;

significa reagire sulla linea che lo consentirebbe non per ribaltare una situazione, ma per stimolare la reattività del compagno;

significa comprendere il livello del compagno e cosa può essergli utile al suo livello. E’  inutile pretendere da un principiante la conoscenza, che so, del radicamento;

significa anche NON permettergli di ridere tenendolo sotto pressione, ma sorridendo noi stessi, cioè non deve aver paura, ma ‘sentire’ la pressione e l’invito a dare il massimo;

 

Saper motivare…

significa, secondo il proprio livello naturalmente, lasciare nell’altro una sensazione positiva e comunque la sensazione di non aver ‘perso tempo’;

porsi sempre nella condizione di permettere all’altro lo studio;

essere altruista;

cercare di capire le lacune e fargliele sentire/trovare;

dare l’esempio;

accettare gli errori dell’altro;

non correggere se non esplicitamente richiesto perché se gli suggerisco lui non impara, meglio cambiare apertura e fargli riuscire la tecnica (o quel che gli riesce) spontaneamente;

stimolare facendo ‘sentire’ cosa non va, se si tratta di lotta un ribaltamento, una contro tecnica accennata, un colpo (leggero) sul lato lasciato scoperto, p.e., e seguitare a reagire evitando di finalizzare per due o tre volte poi finalizzare se proprio non comprende. L’importante è stimolare senza distruggere il suo amor proprio;

non fare facce strane;

emanare gioia, accettazione e volontà di pratica;

accettare cattivo odore, saliva e sangue;

darsi completamente e al massimo, sempre rispetto al livello dell’altro, cioè di quello che pensiamo possa reggere fisicamente.

 

Salvaguardia fisica…

si tratta di tenere bene a mente che ogni incidente porta uno stop o una riduzione nell’allenamento (personale o del compagno), quindi non correre rischi inutili;

un buon compagno d’allenamento si adatta in base all’esperienza, alla tipologia corporea, all’età del suo partner;

un buon training partner si accerta (o cerca di capire) se il compagno ha qualche infortunio. Sostanzialmente, devi avere la certezza di poterti allenare, sia quando sei in forma che quando sei infortunato, perché sai che il tuo partner si allenerà ‘intorno’ ai tuoi infortuni;

un partner che ha paura di farsi male sarà rigido e timoroso (l’incidente è dietro l’angolo);

un partner morbido e reattivo, che ha fiducia, ci offrirà infinite occasioni di crescita;

bisogna fare attenzione alla routine, che abbassa le difese e favorisce l’incidente, quindi bisogna sempre tenere il partner sulla corda cambiando ritmo e velocità, ma anche uscendo talvolta dai canoni stabiliti (senza malizia);

tenere sempre presente che l’allenamento finisce quando si è sotto la doccia. La maggior parte degli incidenti avvengono quando si abbassa la tensione, quando ormai pensiamo che manchi poco alla fine della lezione;

avere grande considerazione del partner, che ci sia simpatico o meno: ognuno è li per la nostra crescita;

sentire le sue rigidità significa comprendere come non fargli male, ma anche come non cozzare contro un muro;

osservare sempre tutto intorno a noi e non concentrarci solo sulla tecnica da eseguire o sulla caduta da fare;

Dare il massimo della nostra forza, non in assoluto, ma in base a quello che riteniamo l’altro possa ricevere/contrastare;

anche se colpiamo/muoviamo piano e lentamente, la nostra mente deve porsi come se lo stessimo facendo con la massima determinazione;

abituarci a praticare con tutti, preferendo anzi quelli che ci mettono in difficoltà, con i quali non ci sentiamo in sintonia: essi rappresentano il miglior allenamento;

lo spirito generale deve essere quello che: se succede qualcosa… è sempre colpa mia;

un buon compagno d’allenamento deve lasciare l’ego da parte, in quel momento è solo uno strumento di formazione di qualcun altro (anche se in realtà si sta formando anche lui);

 

Il ritmo e il saperlo variare per non favorire il rilassamento…

questo lo reputo molto importante, ed in parte l’ho toccato  precedentemente.

Nell’allenamento in palestra spesso ci troviamo con compagni conosciuti (quindi sappiamo grosso modo come reagiscono e si muovono). Come spesso pratichiamo tecniche o sequenze in qualche modo stabilite.

Variare ritmo, velocità, inserire qualche cambiamento, seppur rimanendo nella sequenza stabilita, favorisce l’attenzione e l’allenamento.

La routine, seppur necessaria all’inizio per apprendere la coreografia di un movimento, è deleteria per l’allenamento vero dello stesso (il problema dei kata)

Naturalmente non ce l’ho con i kata come metodologia d’allenamento, ma con il modo in cui molti interpretano ed eseguono gli stessi senza tenere in conto questo parametro e gli altri che ho citato.

 

La giusta forza…

anche questa già accennata…

Una delle cose meno semplici da capire.

Da tenere presente è l’obiettivo: far lavorare il compagno perché migliori il più veloce possibile.

In generale: poca, se deve apprendere un movimento (è inutile mettere in difficoltà una persona quando ancora non sa cosa fare);

sempre più per allenarlo (mai dargli l’impressione che sia troppo facile);

massima per consolidarlo (deve comprendere quanto sia difficile applicare quello che pensa di sapere).

Bisogna anche tener presente l’aspetto psicologico. Se sentiamo che quel quantitativo di forza, che noi reputiamo corretto, crea disagio o stimola malamente, dobbiamo modificare, ridurre la stessa.

Per il principio che l’altro deve migliorare ‘con noi’ e non ‘nonostante noi’.

Alla fine di un vero allenamento, tutti si dovrebbero sentire bene, stanchi, distrutti, ma con la voglia di ricominciare.

 

I giusti stimoli…

Altra cosa importante e difficile, ancorché trasversale alle considerazioni precedenti.

Non esiste una regola, anzi spesso gli stimoli da dare sono completamente antitetici a seconda dei soggetti o delle situazioni.

Sempre presupponendo il nostro ruolo di partner e cioè di “allenatore” momentaneo del compagno.

Solo l’esperienza e l’attenzione ci possono aiutare, ma di fondo dovremmo ricercare sempre il suo miglioramento.

Sbagliare fa parte del suo e del nostro addestramento, non deve rappresentare un problema.

Fregarsene è un problema (in teoria, in pratica nella squadra c’è bisogno anche del grosso egocentrico/killer che pensa solo a se stesso). Quindi fare sempre attenzione a quel che ci ritorna, alle sensazioni che l’altro ci rimanda, con quelle possiamo facilmente comprendere come stimolarlo e quando. p.e. se accelera i movimenti oltre quello che è in grado di controllare, probabilmente siamo stati noi ad aver velocizzato troppo il nostro attacco, o se si irrigidisce siamo noi che lo stiamo mettendo troppo in difficoltà, o ancora se si ammorbidisce troppo è perché noi siamo troppo accondiscendenti.

 

Favorire lo spirito di gruppo/squadra

Cosa c’entra con l’essere un buon partner?

C’entra se si considera il gruppo importante per la nostra crescita. Un gruppo/team/squadra ben affiatato, rappresenta una fonte di stimolo incredibile per ognuno dei componenti .

Quindi non aiutare un compagno, non coinvolgerlo in uno spirito comune di crescita reca danno a tutti, toglie delle opportunità a tutto il gruppo. Sul momento può sembrare noiosa la pratica con un principiante, ma non sappiamo se quel principiante, di li ad un anno, ci potrà offrire delle ottime occasioni d’allenamento, di stimolo.

Favorire uno spirito agonistico (crescita individuale) a discapito del gruppo, secondo me, reca danno anche a chi lo fa, a chi pensa solo a sé stesso. Quindi darsi, per una parte dell’allenamento, a partner diversi e magari meno stimolanti (apparentemente) porterà comunque frutti positivi, se visti in ottica ‘crescita del gruppo’.

 

La “guida”…

Certo il ruolo principale, affinché tutte le cose dette avvengano, è rivestito dall’insegnante. E’ lui il principale ‘motore’, l’esempio da seguire.

Nondimeno ognuno, per il proprio livello, è una ‘guida’ quando si allena con un compagno.

Creare un clima di crescita generale è responsabilità di tutti.

Ho voluto condividere con voi solo la mia esperienza di praticante, non certo fornire un decalogo da seguire.

Sarei felice se altri di voi condividessero con me le proprie sensazioni e/o idee.

Marco Marini

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